Capolavori della cameristica viennese

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05/05/18
Salone d’Onore di Palazzo Barolo

Singolo 10,00 €

Ridotto 6,00 €

TRIO DI IMOLA
Angioletta Iannucci Cecchi, violino
Clara Sette, violoncello
Marianna Tongiorgi, pianoforte

Franz Joseph Haydn (1732-1809)
Trio in sol maggiore per archi
e pianoforte Hob. XV:25
Andante – Poco adagio – Finale: Rondò
all’Ongarese. Presto

Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Trio in re maggiore per archi e
pianoforte op. 70 n. 1 “Gli spettri”
Allegro vivace e con brio – Largo assai
ed espressivo – Presto
Felix Mendelssohn Bartholdy
(1809-1847)
Trio in re minore per archi e pianoforte
op. 49
Molto allegro e agitato – Andante con
moto tranquillo – Scherzo leggiero e
vivace – Finale: Allegro assai appassionato

TESORI DELLA CAMERISTICA VIENNESE – Giovanni Tasso

Dalla metà del XVIII secolo, con l’avvento al trono di Maria Teresa, allo scoppio della prima guerra mondiale Vienna conobbe una straordinaria fioritura artistica, che in ambito musicale la pose – non solo geograficamente – al centro dell’Europa. Grazie alla sensibilità dell’imperatrice e dei re che la seguirono e al fastoso mecenatismo dei membri più influenti dell’aristocrazia austro-ungarica, nella capitale asburgica confluirono molti dei compositori più eminenti dell’epoca, primi tra tutti i dioscuri del Classicismo viennese, Franz Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart, e Ludwig van Beethoven, il compositore che con le sue opere avrebbe aperto un capitolo del tutto nuovo nella storia della musica. Nell’ultimo scorcio del XVIII secolo nel raffinato ambiente viennese si registrò un rapido sviluppo della produzione cameristica, un fatto che si spiega con il desiderio delle famiglie nobiliari più in vista di mettersi in luce con intrattenimenti salottieri, occasioni che per molti compositori grandi e piccoli si rivelarono un’attività quanto mai redditizia e favorirono l’ascesa della professione di compositore-virtuoso che qualche decennio più tardi avrebbe trovato il suo massimo alfiere in Franz Liszt.
Dopo un servizio trentennale presso la corte del principe Esterházy, all’inizio degli anni Ottanta il cinquantenne Haydn decise di trasferirsi a Vienna. Le numerose opere che aveva composto fino a quel momento avevano provveduto a consolidarne la fama a livello europeo, garantendogli un posto di spicco nel competitivo ambiente viennese e in seguito l’invito ai due trionfali soggiorni londinesi. Il successo di Haydn non era basato tanto sulle sinfonie (che oggi costituiscono la parte più nota della sua vasta produzione), quanto sulle opere cameristiche, sonate per pianoforte, trii per archi e pianoforte e quartetti per archi, che costituivano veri e propri piéces de résistance per i moltissimi musicisti dilettanti della capitale. Tra queste opere spicca il Trio in sol maggiore, un’incantevole pagina composta nel 1795, che vede i tre strumenti dialogare su un piano di sostanziale parità, svincolandosi dalla soffocante predominanza del pianoforte che aveva caratterizzato fino ad allora le “sonate con accompagnamento di violino e violoncello”. A dispetto della “disomogeneità stilistica” lamentata da Ciaikovsky in una sua lettera, questo Trio presenta un mirabile equilibrio che lo rendeva ideale per le serate viennesi, con la sofisticata plaisanterie dell’Andante iniziale, il soffuso lirismo del Poco adagio e la verve brillante ma impeccabilmente composta del Rondò conclusivo, basato su un vivace tema di origine ungherese, che costituisce una sorta di “firma” dell’arguto compositore.

Per Beethoven il 1808 fu un anno di marcati contrasti, causati dalla piena consapevolezza che nessun medico avrebbe potuto guarirlo dalla sua sordità. In quest’anno videro infatti la luce quasi contemporaneamente la Quinta e la Sesta Sinfonia, la tempestosa e monumentale “Sinfonia del destino” e la serena “Pastorale”, che incarnano i due estremi del carattere di un uomo che non voleva a nessun costo cedere alla disperazione. Nello stesso periodo Beethoven portò a termine i due Trii op. 70, due opere molto diverse tra loro, che dedicò alla contessa Anna Maria Erdódy, amica dei giorni difficili, che ospitò per qualche tempo il compositore nella sua casa, suscitando un sottile risentimento in un altro suo generoso mecenate, l’arciduca Rodolfo, che tre anni più tardi venne “risarcito” con il Trio op. 97, detto appunto “Dell’Arciduca”. Il titolo “Gli spettri” del Trio op. 70 n. 1 deriva dal tema demoniaco del secondo movimento, che Beethoven aveva concepito per un coro di streghe per le musiche di scena – mai portate a termine – del Macbeth di Collin. Il Trio suscitò una grande impressione che perdurò per molto tempo, spingendo un giudice acuto e tutt’altro che accomodante come Gabriele D’Annunzio a scrivere: «È il Trio detto degli Spiriti. Lo ascolto come dopo la morte. Il cembalo, il violino, il violoncello sono tre voci che parlano come in un dramma religioso, come in un mistero sacro […] Ogni nota sospinge di vena in vena sino al cuore il fondo del calice della vita, quello che non ha assaporato ancora e quello che pregai fosse tenuto lontano dalle mie labbra».
Le opere dei compositori viennesi costituirono un modello di primaria importanza per il berlinese Felix Mendelssohn, autore che in pieno Romanticismo non nascose il suo interesse per i capolavori del passato, come dimostra la sua riscoperta della Passione secondo Matteo di Bach. Mendelssohn seppe però far coesistere brillantemente questa propensione “nostalgica” con un temperamento romantico, un fatto che venne apprezzato da molti contemporanei, come successe – per esempio – in occasione della prima esecuzione del Trio in re minore op.49, tenutasi nel 1839 a casa di Robert Schumann. Parlando di quest’opera, il grande compositore di Zwickau scrisse «Questo è il lavoro di un maestro, come lo furono a loro tempo i trii in si bemolle maggiore e in re maggiore di Beethoven e quello in mi bemolle di Schubert […] Mendelssohn è il Mozart dei nostri tempi, il più brillante dei musicisti, quello che ha individuato più chiaramente le contraddizioni [tra stile antico e moderno, ndr] dell’epoca e il primo che le ha riconciliate tra loro». Questo giudizio esprime con estrema lucidità lo stile camaleontico di un lavoro che nel movimento iniziale rivela inconfondibili tracce della poetica beethoveniana, nell’Andante con moto tranquillo un’effusione lirica dal sapore quasi mozartiano, nello Scherzo il gusto per il fantastico proprio del Romanticismo tedesco e nell’ampio Finale una scrittura densa e articolata, che sembra voler anticipare il Brahms della piena maturità.