Il vento dei salici
4/11/17
Salone d’Onore di Palazzo Barolo
Singolo 10,00 €
Ridotto 6,00 €
I Musici di Santa Pelagia
Arianna Zambon, oboe
Dana Karmon, fagotto
Nicola Brovelli, violoncello
Maurizio Fornero, clavicembalo
Carl Philipp Emanuel Bach (1714-1788)
Pastorale in la minore per oboe, fagotto e basso continuo
Giovanni Benedetto Platti (1697-1763)
Sonata n. 4 in do minore per violoncello e basso continuo
Largo – Allegro – Adagio – Presto
Sonata in do minore per clavicembalo op. 2 n. 4
Fantasia – Adagio – Allegro – Allegro
Francesco Geminiani (1687-1762)
Sonata in do minore per oboe e basso continuo
Adagio – Allegro – Largo – Vivace
Giovanni Benedetto Platti
Triosonata in sol minore per oboe, violoncello e basso continuo
Adagio – Allegro – Adagio – Allegro
IL VENTO NEI SALICI Giovanni Tasso
Il vento che passa tra i salici e fa stormire i rami degli alberi dà voce con il suo sommesso mormorio al soffio vitale della natura, che attraversa da tempo immemorabile il nostro mondo, incurante delle follie e delle miserie umane. Analogamente, il respiro dell’uomo vicino a se stesso e in pace con il suo essere più profondo può assurgere all’Arte più sublime e – per mezzo di strumenti forgiati da generazioni di artigiani – trasformarsi in suoni di meravigliosa bellezza, in grado di commuovere il cuore e di accendere l’anima di chi ancora presta orecchio alla poesia.
Queste considerazioni furono con ogni probabilità la molla che a partire dall’inizio del XVII secolo spinse un numero sempre maggiore di musicisti a scrivere opere per gli strumenti a fiato, prima per il flauto – dolce e traversiere – e poi in numero sempre maggiore per l’oboe e il fagotto, strumenti caratterizzati da un timbro morbido ed estremamente evocativo, in grado di dare corpo a molte immagini naturali. Questa emancipazione non procedette in maniera né rapida né omogenea, ma vide prima l’affermazione dell’oboe, che grazie alla sua tessitura e alle sue sonorità ricche e pastose si prestava molto bene a ricoprire un ruolo solistico accanto al violino e al flauto. Al contrario, il fagotto dovette attendere qualche decennio in più prima di liberarsi definitivamente dall’ingrato ruolo di semplice supporto armonico che lo vedeva relegato nella formazione del basso continuo, per diventare una voce autonoma dell’orchestra e uno strumento solista dotato di un’espressività fino a quel momento del tutto inimmaginabile. Il merito di questa trasformazione va in gran parte ascritto ad Antonio Vivaldi, che al fagotto dedicò la bellezza di 37 concerti solistici, molti più di quanti ne scrisse per il flauto, l’oboe e il violoncello.
Il programma di questo concerto – che evita volutamente i grandi compositori per offrire un quadro inedito ma non meno interessante del repertorio barocco – si apre nel nome di Carl Philipp Emanuel Bach, secondogenito del sommo Cantor lipsiense e compositore e tastierista di straordinario talento, al punto da essere considerato da molti contemporanei – primo tra tutti Franz Joseph Haydn – il “vero” Bach. Alla fine la storia ha ristabilito le gerarchie, riportando grazie a Mendelssohn sul trono Johann Sebastian, ma questo giudizio non penalizza in alcun modo il Bach di Berlino, che con le sue opere si rivelò una figura decisiva nella transizione dagli ultimi fulgidi bagliori del Barocco alla intensa sensibilità di quello che lui stesso definì Empfindsamer Stil, dal quale in seguito si sarebbe sviluppata la poetica del Preromanticismo. La sua incantevole Pastorale si colloca nel solco dei brani strumentali che venivano inseriti negli oratori di carattere natalizio, come le celebre Pifa del Messiah di Händel e la breve sinfonia che apre la seconda parte dell’Oratorio di Natale, nella quale non a caso rivestono un brano di primissimo piano gli oboi, in questo caso d’amore e da caccia. La Pastorale di Carl Philipp Emanuel evoca con delicatezza e commosso stupore la venuta dei pastori alla mangiatoia del Bambinello, un evento che viene sottolineato dai timbri pastosi e ricchi di colori dell’oboe e del fagotto.
Dall’ambiente luterano di Berlino e di Amburgo, le città dove Carl Philipp Emanuel visse e lavorò per quasi mezzo secolo, il nostro viaggio ci conduce nella cattolica Würzburg, centro bavarese sede di un potente principe-arcivescovo dove nel 1722 approdò il violoncellista e compositore padovano Giovanni Benedetto Platti.
Allievo tra gli altri di Francesco Gasparini, Platti è una delle figure più sottovalutate della storia della musica, sebbene circa settant’anni fa un musicologo del calibro di Fausto Torrefranca ne abbia sottolineato la levatura artistica, definendolo addirittura tra i principali artefici dello sviluppo della sonata.
Purtroppo, nonostante questo autorevole contributo e la grande visibilità garantita al repertorio barocco dalla riscoperta filologica, Platti continua a essere relegato in una posizione marginale, come dimostra le sua scarsa presenza nelle locandine dei concerti e nei cataloghi discografici. Per rendersi conto di quanto ingiusto sia il destino di Platti, basta fare caso alla ricchezza della sua vena melodica, al grado di elaborazione dello sviluppo tematico, al dialogo spesso molto fitto che intessono i due strumenti solisti nella Triosonata in do minore e alla sorprendente idiomaticità con cui seppe scrivere per l’oboe e per il fagotto. Forse manca un pizzico di originalità, ma con quello ci troveremmo davvero di fronte a un protagonista del Barocco europeo.
Il programma si chiude con un altro immigrato di lusso, il lucchese Francesco Geminiani, che fece fortuna come violinista e compositore nella cosmopolita Londra di Händel – che in un’occasione ne accompagnò al clavicembalo l’esibizione di fronte a re Giorgio I – e in seguito a Dublino, città dove nel 1742 il grande compositore di Halle tenne a battesimo il Messiah. Oltre che per il suo sbrigliato virtuosismo, Geminiani si mise in luce per la gradevolezza delle sue opere strumentali, nelle quali è possibile notare molti elementi dello stile del suo maestro Arcangelo Corelli.